Venticinque anni di pontificato di Giovanni Paolo II
di Mimmo Lucà
Che i venticinque anni di pontificato di Giovanni Paolo II abbiano segnato la storia dell’umanità ed il cammino dei popoli è oramai universalmente riconosciuto.
La testimonianza missionaria di questo Papa ha dovuto misurarsi con eventi a volte positivi, altre volte tragici, comunque sempre straordinari, che hanno segnato profondamente le vicende degli ultimi decenni.
Il suo annuncio è risultato in ogni circostanza forte, instancabile, profetico e i grandi interrogativi sul futuro dell’umanità che hanno investito gli uomini e le donne del nostro tempo, sono stati affrontati con una inesauribile capacità di infondere fiducia e di alimentare speranza.
Ricordiamo tutti l’invito a “non avere paura”, a non avere paura di tante cose: dello spirito della pace e dell’urgenza della riconciliazione; dell’umanità oppressa che bussa alle porte della libertà e della giustizia; del dialogo e dell’incontro; della necessità emergente della solidarietà; del dovere irrinunciabile del perdono.
L’invito rivolto a tutte le persone di buona volontà, di vincere la paura con la speranza, è stata una costante della sua azione missionaria, la frontiera di un impegno vissuto nella certezza che gli uomini possano crescere e camminare insieme nella pace, in virtù di convinzioni comuni e nel rispetto rigoroso del diritto internazionale.
Un impegno fondato sulla persuasione che non vi è pace senza giustizia e, insieme, non vi può essere giustizia senza perdono.
Ecco allora il significato profondo dell’ultimo viaggio a Gerusalemme per rivolgere al popolo ebraico la richiesta di perdono, nello spirito di Assisi, per le ingiustizie e le persecuzioni subite nel corso della storia, anche per opera dei cristiani e della Chiesa.
Ed ecco il senso della analoga richiesta rivolta alla comunità universale per le colpe e per gli errori originati dalla fede cristiana, commessi lungo l’arco dei secoli, che hanno prodotto sofferenze, ingiustizie e discriminazioni.
E come dimenticare il magistero fermo ed esigente sul tema della pace?
Siamo a quarant’anni dalla Enciclica “Pacem in terris”, e dobbiamo dire grazie a questo Papa se una nuova cultura della pace si è diffusa all’interno delle chiese e della società.
Possiamo affermare oggi che la chiesa cattolica è diventata una autentica forza di pace come non lo era mai stata.
Lo sforzo e le parole per la pace di Giovanni Paolo II e il suo impegno quasi ossessivo di richiamare alle ragioni della politica e della legalità l’intera comunità internazionale, hanno mosso la coscienza e la responsabilità di gran parte dell’opinione pubblica mondiale, soprattutto di tantissimi giovani, ed hanno evitato, come nel caso della guerra in Iraq, uno scontro drammatico tra religioni, tra cristianesimo e islam.
Costante è stato l’invito alle religioni di liberarsi da ogni forma di intolleranza, di sfuggire i rischi dell’integralismo, di evitare la tentazione delle interferenze nella sfera civile ed in quella politica, senza rinunciare alla costruzione di un nuovo umanesimo capace di porsi a fondamento di una comunità universale, nella quale si affermino e si diffondano la convivenza pacifica, il rispetto reciproco dei popoli, i diritti umani fondamentali, il benessere anche per quelli che oggi ne risultano esclusi.
Nel messaggio per la quaresima del 20 febbraio 1985 il Papa torna con grande forza a mostrare il sentimento di urgenza che domina la sua vita: “Quando migliaia di milioni di uomini mancano di cibo, quando milioni di bambini ne vengono irrimediabilmente segnati per il resto della vita, mentre migliaia di essi muoiono, io non posso tacere!”. L’impazienza che lo investe davanti alle tragedie della fame, si traduce nella convinzione che forse neppure la Chiesa grida in nome dei poveri quanto dovrebbe: “Non ci devono essere privilegi per i ricchi e i forti, e l’ingiustizia per i poveri e gli handicappati. La Chiesa lo dice con voce adeguatamente forte? Forse no”. (Strasburgo ottobre 1988). E poi, nella Enciclica Centesimus Annus, del 1991, arriva a sostenere la necessità di “abbandonare la mentalità che considera i poveri – persone e popoli – come un fardello e come fastidiosi importuni, che pretendono di consumare quanti altri hanno prodotto.
I poveri chiedono il diritto a partecipare al godimento dei beni materiali e di mettere a frutto la loro capacità di lavoro, creando così un mondo più giusto e per tutti più prospero”.
Un Papa, dunque, che non vuole tacere di fronte ai drammi della guerra e allo scandalo delle disuguaglianze, ai problemi dell’immigrazione, e della disoccupazione, che in nome di una totale fedeltà al Vangelo pronuncia parole provocatorie e definitive come il no assoluto alla pena di morte e l’invito agli Stati di cancellare il debito estero dei paesi poveri.
Un tempo i Papi parlavano al mondo attraverso i vescovi ed i cardinali. Giovanni Paolo II parla direttamente alla coscienza dei popoli e alla buona volontà di tutte le persone, credenti e non credenti, indicando a tutti un orizzonte di speranza.
Gli siamo grati per questo e gli auguriamo di continuare nella sua missione per molto tempo ancora.
Roma, 16 ottobre 2003