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Chianciano, 1-2 marzo 2003

Intervento di Mimmo Lucà
alla VII° Assemblea nazionale dei Cristiano sociali

La laicità della politica per la pace, la giustizia, la solidarietà

''…un congresso di rilancio della presenza dei Cristiano sociali nella politica e nella societa'. Vogliamo riavviare un forte dialogo con il mondo dei movimenti e delle associazioni di ispirazione cristiana e ci impegneremo soprattutto su tre fronti: la promozione della pace, il rilancio della questione sociale e la riforma della politica. Ci impegneremo per la costruzione di un partito plurale della sinistra, convinti che cio' non puo' che andare di pari passo con la costruzione del nuovo Ulivo''. M. Lucà
Dalla 7° assemblea nazionale dei Cristiano sociali vi proponiamo la sintesi degli interventi di Mimmo Lucà, eletto all’unanimità nuovo coordinatore del movimento e di Giorgio Tonini coordinatore uscente

1. LE RADICI DELLA NOSTRA POLITICITÀ

I tempi urgono. Per questo abbiamo convocato questa Assemblea (per altro in ritardo). E noi non possiamo fermarli, né rallentarli per avere la pausa, che magari sarebbe necessaria per prendere decisioni così incisive come quelle che ci attendono.
In questa Assemblea c’è un doppio nodo da sciogliere se vogliamo che i Cristiano Sociali non finiscano a coda di topo.
Il primo riguarda la nostra politicità: i contenuti e le forme concrete del nostro essere movimento politico. Il secondo nodo, che può essere sciolto solo dopo il primo, riguarda il nostro ruolo nei Ds e nell’Ulivo.
E’ evidente che la politicità di un movimento come i CS si gioca essenzialmente sul profilo programmatico e su ciò che di fatto rappresentano. Senza affrontare questi due nodi in modo strettamente congiunto, rischiamo di ridurre i Cristiano Sociali ad una consorteria di persone e di gruppi destinati a trasformare il proprio far politica in un gioco da tavolo.
E’ tempo di capire se la nostra vocazione è quella di esercitarci in giochi di ruolo riservati a microcorporazioni o giocare noi stessi, per quel poco o quel tanto che possiamo, sul versante della politica che più si addice ad un movimento che si è identificato con la doppia aggettivazione di “cristiano” e “sociale”: parlo della politica che consiste nell’interpretare e rappresentare i valori e i movimenti che si esprimono non già in un generico cattolicesimo liberal-democratico ma in quell’area avanzata del cattolicesimo e del protestantesimo che si è dislocata nella sinistra democratica.
Quest’area, come i fatti dimostrano, è tutt’altro che marginale. Il punto più sensibile del centrosinistra e della sua politica sta oggi proprio nel rapporto con la società e con i suoi movimenti. Ed è a tutti evidente che nella leadership e nelle esperienze più avanzate e persistenti di quella realtà, i cristiani hanno una presenza forte, un ruolo riconosciuto.
Ecco perché trovo profondamente ingiuste e politicamente sbagliate certe considerazioni pubblicate recentemente su Il Riformista. Se un contributo i cristiani espressi da queste realtà associative e di movimento possono dare oggi, è proprio quello di riportare al centro della politica un agire fortemente orientato da valori.
Non mi sembra che la politica, in questa fase storica, sia segnata da uno scontro tra integralismi ideologici o ingenui utopismi e abbia bisogno di una “sana” iniezione di laicità e di professionalità politica; vedo invece un eccesso di secolarizzazione; vedo una scena politica dominata da un pragmatismo ossessivamente orientato dal gioco degli interessi, delle carriere e delle voglie di vincere individuali e di gruppo.
Vedo che questo pragmatismo cerca troppo spesso di nascondersi dietro bandiere di valore, ma continuamente le contraddice nel concreto esercizio della gestione politica, della ricerca affannosa della mediazione che più conviene ai singoli, alle loro fortune, alla loro personale visibilità.
Non credo, che il nostro compito, oggi, sia quello di farci cooptare dentro le logiche di questo modo di far politica. Sia chiaro, il realismo politico e la mediazione sono virtù indispensabili della politica istituzionale. Ma con due avvertenze: che le radici, le ragioni e le dimensioni costitutive della politica stanno nella società civile; e che realismo e mediazione hanno senso quando sono guidate da una progettualità che da quelle radici trae alimento.
Se un’autocritica tutti dobbiamo farci è di aver smarrito, in questi anni, il senso di questa vocazione e di questa priorità. Di esserci fatti troppo catturare dalle dinamiche istituzionali di partito e di coalizione, di aver spesso immaginato che a curare i nostri collegamenti sociali fossero sufficienti i collegamenti di vertice con i gruppi dirigenti dell’associazionismo e del sindacato.

2. IL NOSTRO PROFILO PROGRAMMATICO

Imparare dai nostri errori vuol dire rielaborare il nostro profilo programmatico. Vuol dire farlo senza coltivare la pretesa di dare al partito e alla coalizione il contributo di questo o quel singolo intellettuale o dirigente, ma tenendo ben saldo un obiettivo: interpretare e rappresentare in forma corale e politica, nei Ds e nell’Ulivo, i valori e le istanze che sono oggi espresse dalla nostra area di riferimento.
No, non credo proprio che potremo restituire consistenza e prospettiva ai Cristiano Sociali schierandoli, dall’alto, sulle riforme istituzionali o esprimendo sulla pace posizioni di vertice molto distanti da quelle espresse oggi non solo dalla nostra area di riferimento, ma da una base cattolica e protestante ben più vasta e dalle stesse chiese.
Davvero la nostra preoccupazione principale, oggi, è esprimere sulla pace una “politica di governo”? O non è piuttosto quella di portare dentro la politica delle istituzioni e nella battaglia di opposizione contro la pasticciata e subalterna agitazione guerrafondaia del Polo le ragioni e i valori del grande movimento contro la guerra e per la pace che si è espresso a dimensione mondiale? Non è forse così che possiamo contribuire a superare le attuali difficoltà di rapporto tra sinistra e società civile? A dare più credibilità e più consenso alla politica della sinistra e più politicità alle posizioni dei movimenti?
Un discorso analogo vale per gli altri due temi che debbono profilare la nostra identità e il nostro programma: il lavoro e il welfare. Senza rinunciare a dire la nostra sulle grandi questioni di strategia e di ingegneria istituzionale, il nostro compito è elaborare e rappresentare quei contenuti che ci consentono di collegarci in modo forte e vitale con la nostra area di riferimento.


3. LA POLITICA DELLA PACE

Prima di tutto la pace. E’ il messaggio che il pontificato di Giovanni Paolo II sta da anni mettendo al centro del proprio magistero e della propria iniziativa internazionale. I cattolici, anche i cattolici in politica, debbono prenderlo sul serio. Per noi non è semplicemente un valore fondativo di ogni convivenza civile, è la tensione permanente che siamo tenuti a testimoniare. Non perché ci illudiamo che una vera pace sia storicamente realizzabile. Ma perché senza questa forte tensione morale, civile e politica il mondo sarà più facilmente preda della violenza e della guerra.
In questo senso oggi siamo ad un vero tornante storico: perché viviamo un’epoca dove si sta realizzando una continuità anche culturale tra società di mercato – strutturata sulla logica competitiva – e politica della guerra.
Per questo è sbagliato continuare a praticare quella sorta di classica divisione del lavoro tra movimenti – che possono assumere anche radicalmente la bandiera della pace – e istituzioni che invece debbono operare con il realismo necessario per acquisire e gestire i concreti livelli di pace possibile.
Tocca anche ai partiti e alle istituzioni spezzare quella continuità. E questo lo si fa elaborando anche nei partiti e nelle istituzioni una cultura e una politica della pace.
Senza assumere come prioritario questo compito, una sinistra ha solo due esiti possibili: o si snatura e si fa cooptare dentro la politica della guerra; o semplicemente assiste passiva alla recisione delle sue basi culturali e sociali. La grande maggioranza del mondo cristiano è contro questa guerra. In questa occasione non si può certo dire che Giovanni Paolo II si trovi isolato o che la Santa Sede parli con voci discordanti. Non ci si limita a cercare di mostrare che le religioni vogliono la pace, ma si assiste al consapevole tentativo di dire un “no” a quella guerra che invece la superpotenza mondiale vuole scatenare in Iraq. L’opposizione è espressa in termini chiari, non ambigui, non variabili con il variare dell’interlocutore e si tratta di una opposizione fondata su valori religiosi ma anche su ragioni politiche e giuridiche: ingiustizia e assurdità di una “guerra preventiva”, necessità di verificare la vera finalità di un’azione bellica, obbligo di iscriverla nell’ambito del diritto internazionale e di percorrere con serietà e convinzione tutte le strade alternative, necessità di pesare le conseguenze che un’azione militare comporta per le popolazioni civili innocenti.
Della compattezza di questo fronte, di questa “Chiesa ossessionata dalla pace” si sono accorti con sorpresa e preoccupazione anche quanti, nel nostro paese, da qualche tempo apparivano “attenti e acuti osservatori del cattolicesimo”, capaci soprattutto di leggerlo con simpatia come possibile “religione civile” per un’Italia così smarrita nella sua cultura. Alcuni di loro si erano addirittura convinti che la Chiesa avesse ormai fatto una scelta culturale e si fosse schierata definitivamente su posizioni occidentali, vuoi sui temi dell’economia di mercato, vuoi su quelli della difesa dell’Occidente di fronte al pericolo di un terrorismo islamico. Costoro si sono come sentiti traditi e non hanno esitato ad attaccare apertamente il Papa, i vescovi, i cattolici, prima blanditi e ora definiti sbrigativamente – e in senso peggiorativo – “pacifisti”. Amici di Saddam, li ha definiti Berlusconi, utopisti pericolosi e antipolitici. “La sinistra ha perso la testa – ha detto – i pacifisti non l’hanno mai avuta”.
Come abbiamo visto, se le ragioni morali del rifiuto della guerra sono forti e ineliminabili, le ragioni politiche lo sono altrettanto.
Sono ragioni strategiche di assetto internazionale, anzitutto. E’ tempo di fare una valutazione di fase: dalla fine della guerra fredda si stanno ripetendo con ritmo incalzante le guerre calde che assumono rilievo globale. Non sono guerre mondiali nel senso classico, sono però guerre che hanno come oggetto il costituirsi di un nuovo ordine internazionale: il Golfo, i Balcani, la Cecenia, l’Afghanistan, il marcire della guerra israelo-palestinese…
La guerra è tornata ad essere un ordinario strumento di riformulazione degli assetti mondiali. Ma con una caratteristica che da secoli non si registrava: c’è un’unica grande potenza economica e (soprattutto) militare in campo. E le guerre che si stanno combattendo vedono una tale sproporzione di forze da apparire risibili su un piano strettamente militare. Sono, in realtà, il modo attraverso il quale la superpotenza americana afferma i suoi interessi eludendo,come cerca di fare nel caso dell’Iraq, la legalità internazionale.
Non si tratta di essere ideologicamente antiamericani. Si tratta di prendere atto che, a partire dal fatto di essere rimasta l’unica grande potenza in campo, gli Stati Uniti di Bush hanno teorizzato (già prima dell’11 settembre!) un secolo di Pax Americana, un secolo di vera e dichiarata egemonia degli Stati Uniti nell’ordine mondiale. Dopo la tragedia delle Torri Gemelle tale disegno ha assunto, ufficialmente, la motivazione della guerra preventiva e permanente contro il terrorismo.
E’ legittimo, però, un interrogativo: l’inusitata aggressività assunta oggi dal terrorismo non è forse da mettere in relazione a questa militarizzazione dell’ordine internazionale? Alla assoluta sproporzione dei rapporti di forza economici e militari che l’accompagna e per la quale si sa già in partenza che uno solo può essere il vincitore? Non è forse dovuta al fatto che gli sconfitti senza speranza sono sempre gli stessi: i popoli, ai quali è sostanzialmente negata ogni prospettiva di uscire dalla povertà e comunque di prender parte ai livelli di benessere attinti nei Paesi del Nord Ovest?
La vera guerra preventiva al terrorismo sta anzitutto nel progettare seriamente un superamento di questa ingiustizia insopportabile. Sta nel rendere credibile una reale mondializzazione dello sviluppo e non soltanto, come oggi accade, una globalizzazione della potenza mercantile e militare dell’Occidente e, più concretamente, degli Stati Uniti.
E perché questo sia possibile è necessario realizzare nel mondo un nuovo equilibrio multipolare che liberi gli Stati Uniti dalla gravosità di un inaccettabile ruolo di gendarme mondiale e dalla tentazione di usare spregiudicatamente questo monopolio per i propri interessi e per la propria potenza.

4. LA FUNZIONE E LA RIFORMA DELL’ONU

Questo nuovo ordine internazionale pretende sicuramente una riforma delle istituzioni internazionali, a cominciare dall’Onu. Ma sappiamo bene, per l’esperienza che il mondo ha acquisito negli ultimi decenni, che le grandi potenze non hanno alcun interesse a questa riforma che avrebbe, tra i suoi obiettivi, quello di disciplinare e quindi limitare la loro forza. E questa è tanto più vero oggi dove nessuna delle potenze in campo è in grado,da sola, di condizionare seriamente la superpotenza americana.
Assume tutto il suo rilievo politico, qui, la responsabilità internazionale dell’Europa. Sino a quando il nostro continente non riuscirà ad essere anche e soprattutto una realtà politica sufficientemente coesa da presentarsi come interlocutore unico agli Stati Uniti e all’Onu, fino a quando non sarà in grado di esercitare una propria politica internazionale, il mondo resterà nella situazione attuale.
Da questo punto di vista dire “fuori l’Italia dalla guerra”, non basta, di più, è un non senso. Bisogna dire “fuori l’Europa dalla guerra” e “fuori il mondo dalla guerra” perché è una guerra sbagliata, inutile, pericolosa, che può avere conseguenze incalcolabili, e trascinare una parte del mondo nella barbarie. “Un’avventura senza ritorno”, disse il Papa alla vigilia della guerra nel Golfo del 1991. Adesso sarà molto di più. E non è che l’avventura cessa di essere tale se viene votata dal Consiglio di sicurezza dell’ONU. Per questo abbiamo detto e ripetiamo anche qui che anche in quel caso essa, la guerra, resterebbe un tragico errore, un colpo micidiale alla stessa credibilità dell’ONU, un precedente che qualunque altro Paese potrà utilizzare in futuro per attaccare preventivamente uno Stato vicino considerato pericoloso ed ostile e ci comporteremmo conseguentemente in Parlamento, senza esitazione e senza dubbi.
E come non vedere, d’altra parte, che Bush dalla guerra sta traendo anche molti vantaggi interni? Ha superato la forte carenza di consenso e di legittimazione democratica con la quale si è insediato alla Casa Bianca. Ha mantenuto le promesse fatte ai potenti interessi che sono stati i suoi grandi elettori. Non ultimo, sta cercando di utilizzare una crescita enorme della spesa militare come un classico volano keinesiano per tamponare le gravi difficoltà dell’economia statunitense (alla faccia dei proclami liberisti!).
I cantori della “ragion politica” sostengono che la guerra non si può rifiutare quando è sostenuta dall’Onu. A loro rispondiamo: se l’Onu giungerà a tale sostegno, sarà perché la sua dinamica democratica e la sua autonomia, già molto imperfette, avranno subito un ulteriore grave condizionamento. E li scongiuriamo di essere davvero, come sostengono, dei veri realisti. Questo modo di tornare ad utilizzare la guerra come strumento di egemonia di una superpotenza non porterà pace ne stabilità, ma condurrà ad una turbolenza crescente nelle relazioni internazionali. Come non vedere che la guerra farà crescere la povertà, l’umiliazione, la disperazione rabbiosa, il terrorismo?
Per non parlare di quel che potrebbe accadere per il fatto che queste dinamiche di potenza si mascherano da guerre sante, da scontri di religione e di civiltà.
La nostra radicale obiezione alla “guerra preventiva”, dunque, è anche e soprattutto politica. Essa è fuori dalla legalità internazionale. Il terrorismo è una cosa orribile che offende ogni legalità umana, ma nazioni civili e democratiche non possono combatterlo ponendosi a loro volta fuori della legalità.
Ma, si dice, il nuovo intervento in Iraq è giustificato dal fatto che Saddam è un feroce dittatore. Ha forse torto chi risponde: gli Stati Uniti, quando è loro convenuto, hanno appoggiato ed appoggiano altri analoghi regimi?
E perché non considerare come prioritario un altro, decisivo problema: se l’Onu legittima l’intervento armato aggressivo come metodo per cambiare la forma di governo di un paese sovrano, dove andrà a finire il diritto internazionale? Altra cosa è agire, come si sta facendo di recente per la ex-Jugoslavia, perseguendo in un tribunale internazionale le responsabilità dei singoli.
Per non parlare degli strumenti che le Nazioni Unite possono mettere in campo per una seria dissuasione: forme di intervento ben diverse da quelle utilizzate contro l’Iraq, con un embargo fatto apposta per far pagare i costi maggiori al popolo iraqeno; forme che puntino ad operare uno scambio non tra cibo e petrolio ma tra democrazia e aiuti internazionali allo sviluppo. La logica che affama il popolo per spingerlo a ribellarsi al dittatore oltre che incivile è stupida: perché applica ad altre culture strategie che possono avere un’efficacia solo in alcuni contesti occidentali, ignorando la specificità che il rapporto tra autorità e popolo ha nella storia di quei popoli.
Nel 1996 la Albright, allora ambasciatrice USA all’ONU, prima di diventare Segretario di Stato, fu intervistata da una televisione americana sull’embargo all’Iraq. “Abbiamo sentito che mezzo milione di bambini sono morti in conseguenza dell’embargo. Ne valeva la pena, era necessario?” chiede l’intervistatore. Risponde la Albright: “Penso che questa sia una scelta molto dura, ma la posta in gioco …. Pensiamo che per questa posta ne sia valsa la pena”. La barbarie, appunto. Non si può rispondere sì, ne vale la pena. La coscienza e la intelligenza di una persona normale non risponderebbe così. Noi dobbiamo dire no. Perché non si può ammettere che per punire un dittatore crudele e senza scrupoli, la comunità internazionale metta a repentaglio la vita di un popolo, la sua dignità, il suo futuro, e si provochino sofferenze indicibili a donne, vecchi e bambini per 12 lunghi anni come si è fatto con l’embargo. E poi, siccome neppure questo è sufficiente si arriva alla guerra e alla sua potenza distruttiva.
Qui non si tratta d’essere filoamericani o antiamericani. C’è innanzitutto un problema morale, un buco nello stomaco e nella coscienza, scavato dalla prospettiva della strage.
L’America che conosciamo, quella votata alla causa della dignità umana e ai diritti di ogni persona non è questa. Non è questa l’America della libertà e della giustizia.
Non è questa l’America che ci piace e che ci ha trascinati tante volte nei suoi sogni di emancipazione e di riscatto. Così come non ci piace la Russia che soffoca la Cecenia, la Cina che non rispetta i diritti umani, la Turchia che perseguita le minoranze curde. Consideriamo Saddam un dittatore pericoloso e nutriamo la speranza che il popolo irakeno sappia trovare la forza per liberarsene e rovesciarlo quanto prima, con il sostegno dell’azione politico-diplomatica della comunità internazionale e con la mobilitazione dell’opinione pubblica e dei movimenti per la pace di tutto il mondo. Si, noi lo dobbiamo dire più forte: il regime di Saddam è nemico dell’Iraq e del suo popolo e rappresenta un ostacolo rilevante per la prosperità e la sicurezza di quel Paese. Per questo condividiamo la proposta di Fassino e D’Alema all’Internazionale socialista per una Conferenza internazionale in Italia sulla democrazia e i diritti umani in Iraq.
Contro il terrorismo si può vincere. Ma non basta una lotta repressiva, neppure quando si rappresenta come preventiva. E’ evidente che se degli stati, in modo più o meno nascosto, alimentano e sostengono il terrorismo, è necessario intervenire (dentro la legalità internazionale) per mettere fine a questa situazione. Ma la loro colpevolezza deve essere legalmente dimostrata e nessuno, tanto più a livello internazionale, può farsi da sé una giustizia sommaria.
Quando sono in gioco le regole della convivenza mondiale, le forme sono altrettanto importanti dei risultati. Altrimenti torniamo a quella antica barbarie per la quale il fine giustifica i mezzi. E i mezzi che prevalgono, si sa, non sono quelli della ragione ma quelli della forza, e della forza che si fa meno scrupoli morali e legali.
Torniamo alla questione nodale dell’Onu. Si dice: se non si riconduce all’Onu l’inevitabile scesa in campo degli Stati Uniti in Iraq, l’unica via maestra ad un ordine internazionale più giusto e più pacifico perderà credibilità e autorevolezza. Le cose stanno proprio così?
Vediamo. La chiave di volta che dovrebbe ricondurre l’intervento in Iraq nella legalità è il mancato rispetto di una risoluzione dell’Onu. Qualche osservazione in proposito: da dove ha origine quella risoluzione che impone il disarmo all’Iraq? Da una guerra, quella del Golfo, che aveva certamente più che fondate ragioni di legalità internazionale nell’invasione del Kuwait, ma che fu combattuta, come si ricorderà, fuori dalle forme di legalità previste dallo statuto delle Nazioni Unite. E anche con gravi violazioni di ogni convenzione internazionale, visto l’uso che è stato fatto di nuove armi di distruzione di massa dagli effetti terribili.
C’è poi il fatto che non si afferma la legalità internazionale (e tanto meno la credibilità dell’Onu) usando due pesi e due misure. L’editoriale dell’ultimo numero della Civiltà Cattolica osserva che è vero che Baghdad “ha contravvenuto molte volte alle risoluzioni dell’ONU, ma è stato calcolato che le violazioni delle risoluzioni sono avvenute 91 volte, e 59 volte sono state commesse da Stati alleati degli Stati Uniti: Israele e Turchia”. (come dire si continua con due pesi e due misure).
Quante, decisive risoluzioni sono rimaste lettera morta nel conflitto israelo-palestinese? E in quell’area sussistono o no da tempo le condizioni (politiche ed umanitarie) che esigerebbero un intervento diretto o indiretto delle Nazioni Unite, come è avvenuto, da ultimo, nei Balcani?
Ma anche dando per buona la risoluzione che impone il disarmo a Saddam, è a tutti evidente che non esistono, ad oggi, prove evidenti e certe della sua violazione (e sono in molti a mettere in dubbio che esse siano comunque rintracciabili). Su che basi, allora, l’Onu potrebbe legittimare l’intervento in Iraq? Soltanto cedendo alla brutale logica di potenza degli Stati Uniti? Cedendo all’evidente e plateale ricatto che Bush e i suoi collaboratori stanno facendo all’Onu? E davvero cedere a questo ricatto renderebbe l’Onu più credibile?
Noi pensiamo invece che se si ridurrà la grande istituzione internazionale a foglia di fico della unilaterale logica di potenza degli Stati Uniti di Bush, si distruggerà definitivamente la sua credibilità.
Per questo consideriamo politicamente molto grave la responsabilità del governo italiano che, per ingraziarsi il governo americano e prender in qualche modo parte ad un gioco che non sarà mai nelle sue mani, ha puntato a dividere l’Europa in amici e avversari di Bush. Non ha soltanto indebolito l’Europa ma anche l’Onu. E non si rende conto di essere, su temi così drammatici e decisivi, un apprendista stregone.
E’ dunque evidente che la nostra posizione sulla pace non dipende soltanto da una coerenza con i valori in cui crediamo in quanto cristiani e in quanto cittadini. Sappiamo bene che la pretesa pura e semplice di affermare i propri valori riduce la politica ad integralismo. O meglio nega le ragioni stesse di una politica democratica e di pace. Ma non crediamo neppure a quella sorta di professionismo politico che riduce la politica ad un realismo che guarda solo alle piccole convenienze dell’ora e finisce col sacrificare ad esse le ragioni stesse per le quali una sinistra esiste.
In questo modo i valori diventano una variabile dipendente, una foglia di fico di un’identità declamata e non coerentemente vissuta.

5. UNA DESTRA INSOSTENIBILE

Il Polo delle libertà rivela ogni giorno di più la sua inconsistenza come forza di governo: si moltiplicano i fallimenti e i segnali di difficoltà. Questa destra non riesce neppure a comprendere le sfide dell’epoca che abbiamo di fronte, e la distanza tra promesse elettorali e risultati concreti è sempre più evidente.
Andato al governo in nome dello sviluppo, Berlusconi sta regalando agli italiani un pesante ritorno all’indietro: articolo 18 e attacco frontale al sindacato, resa dei conti con la magistratura fino allo scandalo del legittimo sospetto, ritorno dell’inflazione e crescita del debito pubblico caos nella scuola e riduzione delle garanzie previdenziali. L’evidente inaffidabilità delle previsioni e delle politiche si traduce in una crescente perdita di credibilità proprio sul terreno dell’economia, dove il Presidente del Consiglio “imprenditore e operaio” si era presentato come più competente e risolutivo. La stagnazione e la drammatica crisi della Fiat fanno da rivelatore che smentisce duramente l’ottimismo di facciata del governo.
Non meno seccamente smentita è la pretesa di modernità riformista: questa maggioranza si sta rivelando populista e illiberale, concentrata sui propri interessi e priva di senso dello stato. Il comportamento di Berlusconi sulla guerra all’Iraq e la vicenda Rai di queste ore ci segnalano che siamo vicini alla soglia oltre la quale questo governo diventerà insostenibile per i Paese.
Nel corso di quest’anno si sono manifestati nel Paese forti segnali di ripresa e di speranza che vanno adeguatamente raccolti.
Nella scorsa primavera ha preso corpo uno straordinario protagonismo sociale di opposizione per la difesa dei diritti del lavoro e dei diritti di libertà.
Le manifestazioni di Firenze e di Roma hanno messo in luce l’ampiezza e la pluralità dei soggetti che hanno a cuore la pace, i diritti umani, la cooperazione allo sviluppo, una mondialità fondata sulla giustizia.
Cresce anche lo scontento tra gli elettori e i sostenitori del Polo. Cresce negli interessi corporativi forti e diffusi che hanno costituito il nocciolo della vittoria della destra, ma anche nell’area estesa di ceto medio che si è fatta sedurre in buona fede da Berlusconi e dal suo marketing.
E sono ogni giorno più vasti gli interessi grandi e piccoli che vengono colpiti da un’economia in difficoltà.
Si dà la colpa alla congiuntura internazionale, ma è sotto gli occhi di tutti che la situazione italiana è aggravata da una politica economica sbagliata nei suoi presupposti e confusa nelle sue strategie.

6. LA COSTRUZIONE DEL NUOVO ULIVO

Sta al centrosinistra raccogliere questi segnali importanti e assumere una nuova iniziativa. E per farlo è urgente superare impacci e ostacoli che stanno rallentando il cammino. La mobilitazione di primavera ha avuto come motore centrale la reazione contro il governo Berlusconi; ha anche espresso, però, insofferenza e critica nei confronti dei partiti e dei gruppi dirigenti del centrosinistra.
Settori qualificati e consistenti di società civile considerano non più sopportabili i ritardi, i personalismi, le conflittualità che segnano il cammino dell’Ulivo e delle altre forze del Centrosinistra.
Le difficoltà che ora esplodono sono le stesse che hanno portato molti, nel centrosinistra, a considerare il protagonismo del sindacato e della società civile più come un problema che come una risorsa; più come un disturbo al manovratore che come un sano risveglio morale e politico della società. E’ un limite che va superato se davvero si vogliono trasformare quei fermenti in una nuova stagione politica.
La condizione più decisiva, per un rilancio dell’opposizione, è superare i limiti di struttura e di unità dell’Ulivo. Siamo tra quanti ritengono che il recupero di credibilità e di efficacia della coalizione non sopporta forzature di vertice verso una trasformazione dell’Ulivo in partito unico dei riformisti.
Il “riformismo democratico”, oggi, definisce un campo variegato di forze, non un partito, né un programma già delineato. E’ un campo affollato da un numero ampio di soggetti che non sono in grado di unificarsi per decreto dall’alto o per ingegneria organizzativa: si provocherebbero solo traumi e fratture.
Condurre questo campo ad una maggiore coesione vuol dire invece procedere, con determinazione, per fare dell’Ulivo la “casa comune dei riformisti”. Tonini, nella sua relazione, ci propone di andare oltre i Ds per guardare alla struttura dell’Ulivo. Io credo invece che non vi sia contraddizione tra l’esigenza di lavorare per una sinistra plurale, più forte e moderna e la costruzione del nuovo Ulivo. La coalizione ha bisogno di una sinistra che metta la propria autonomia al servizio di un progetto comune e che rinsaldi le sue radici nella società italiana in una nuova dimensione europea.

E’ una strada che chiede al più presto la soluzione di tre questioni principali: una leadership autorevole e riconosciuta, inserita in forme di coordinamento pluralistico che tenga insieme partiti, eletti e società civile; le tematiche e le procedure che delimitano e disciplinano il conferimento, da parte delle singole forze politiche, della propria sovranità alla coalizione; i livelli e le forme della coalizione sul territorio. La convocazione della Assemblea Nazionale dell’Ulivo per il 12 Aprile è molto importante in questo senso, e può rappresentare l’occasione per un cambio di passo nella direzione giusta.
Ma non si può continuare a dare l’immagine di una coalizione che parla al Paese con il volto di otto, nove segretari di partito, partiti che vanno dallo 0,4% al 20%, tutti sullo stesso piano e tutti convinti di essere allo stesso modo importati, insostituibili e decisivi. La costruzione del nuovo Ulivo richiede anche una riduzione della frammentazione partitica ed uno sforzo generoso di semplificazione del pluralismo organizzativo della coalizione.
Riorganizzare l’Ulivo e allargare le alleanze per mettere in campo un’opposizione che contrasta la destra e intanto costruisce l’alternativa: si riassume così il compito di questa fase.

7. SULLE RIFORME ISTITUZIONALI

Nel disegnare questo percorso sappiamo che la lunga transizione verso una democrazia compiuta non è terminata: le istituzioni non sono ancora strutturate da un accettabile bilanciamento dei poteri.
Siamo anzi dentro un quadro politico segnato da acutissimi conflitti d’interessi e da un grave deficit di cultura democratica delle regole e del governo.
Abbiamo purtroppo di fronte una destra tentata di fare da sola e di imprimere una piegatura affaristica e neo – autoritaria alle istituzioni repubblicane. Siamo consapevoli che uscire dalla lunga transizione italiana vuol dire anche portare a termine il processo di riforma delle istituzioni. Bisogna però imparare dagli errori del passato. Non basta che le riforme siano necessarie per farle e per farle come servono al Paese.
Riforme davvero in grado di sciogliere i tanti nodi ancora irrisolti del nostro sistema politico istituzionale esigono un reale spirito bipartisan, qualcosa di simile ad un clima costituente, quantomeno la capacità di distinguere tra interesse generale e interessi di parte. Nulla di più lontano dalla situazione politica attuale. Nella sua azione legislativa e di governo il Polo mostra ogni giorno di non avere alcun senso dello Stato né di una corretta dinamica tra maggioranza e opposizione.
Nel clima attuale e con gli attuali rapporti di forza, riavviare il processo significherebbe giungere a riforme fatte su misura degli interessi forti e dell’ideologia del Polo.
E’ evidente che se il Polo darà un seguito reale alla dichiarata volontà di camminare sul doppio binario devolution/presidenzialismo, il Centrosinistra dovrà opporsi con tutte le proprie forze, rendendo visibile un proprio unitario disegno riformatore. Oggi, dunque, il problema principale, nell’Ulivo, non è alzare bandiere e bandierine di singoli parlamentari o di partito, ma individuare il metodo e il percorso per unificare la coalizione su un’ipotesi riformatrice. Cosa non facile, come sappiamo, vista la diversità delle posizioni di partenza. Il rischio più probabile, è che anche su questo tema il Centrosinistra finirà col marciare in ordine sparso.
Sono queste le ragioni politiche (e tralascio quelle più elementari di correttezza nei nostri rapporti) per le quali avrei preferito che il nostro Movimento potesse discutere collegialmente sull’opportunità di farsi promotore, attraverso il suo massimo esponente nazionale – il Coordinatore –, di una proposta parlamentare sul tema. Penso che a molti di noi sarebbe piaciuto, quanto meno, essere informati dell’iniziativa e poterne discutere nel merito.

8.OPPOSIZIONE PER L’ALTERNATIVA:IL PARTITO E LA SOCIETÀ

Un’altra condizione per l’efficacia del processo politico che conduce all’alternativa, sta nella capacità di coordinare opposizione sociale e opposizione parlamentare.
Il rilancio dell’iniziativa politica del partito nella società, avviato dopo il Congresso di Pesaro dal nuovo gruppo dirigente, va in questa direzione, e ha consentito ai Ds di recuperare energie importati credibilità e fiducia.
Abbiamo riaperto il dialogo con realtà difficili e con mondi culturali e sociali che segnalavano, dopo le elezioni del maggio 2001, ragioni d’insofferenza e di sfiducia. Abbiamo ricostruito relazioni e rapporti , riprendendo la buona abitudine dall’ascolto, ci siamo messi in viaggio per incontrare il mondo del lavoro, quello dei servizi e della sanità, l’associazionismo, la cooperazione e il volontariato, le realtà del mezzogiorno, il mondo delle imprese.
Abbiamo rafforzato e resa più incisiva l’opposizione parlamentare, collegandola e sintonizzandola di più con la società.
La sinistra esiste, storicamente, dentro la questione sociale e per la sua capacità di includere attivamente i cittadini e la società civile nell’esercizio della democrazia. Interpretare i disagi, le paure, le speranze che stanno nella società, rappresentarle e metterle in movimento in un’esperienza di partecipazione, è per la sinistra un compito irrinunciabile e permanente.
Quando si allontana da questo suo baricentro la sinistra smarrisce le proprie ragioni e il proprio senso.

9. CRISTIANO SOCIALI: RIDEFINIRSI PER USCIRE DALL’INCERTEZZA

Questo vale, a maggior ragione, per i Cristiano Sociali che nella questione sociale fondano la propria esistenza. La questione sociale del resto è, oggi più che mai, il luogo privilegiato dal quale partire per affrontare sia i problemi dello sviluppo e della sua sostenibilità, sia i problemi della democrazia.
Nella nostra Assemblea, stiamo riflettendo sul contributo che il movimento può dare a questa rinnovata opposizione per l’alternativa. Abbiamo confermato i caratteri di fondo della nostra identità così come si sono concretamente formati nel cammino di questi anni: assumere la pace, la questione sociale, i valori della politica, come contenuti centrali del nostro contributo dentro la sinistra democratica e nell’Ulivo.
I Cristiano Sociali sono oggi parte riconosciuta dei Democratici di Sinistra. In questi anni, però, la nostra presenza nel partito è stata segnata da un disagio, dal quale decidiamo di uscire aprendo una nuova stagione della nostra esperienza, riaprendo il cantiere e riprendendo i lavori.
Il ruolo di co-fondatori dei Ds è esaurito, ma la costruzione del nuovo partito della sinistra democratica è rimasta nel guado. Condurla ad un giusto approdo è un compito che continuiamo ad avvertire come una responsabilità anche nostra. Il gruppo dirigente dei Ds emerso dal congresso di Pesaro è impegnato su questo doppio obiettivo: portare a termine la costruzione del partito della sinistra riformista mentre sviluppa l’iniziativa per il Nuovo Ulivo.
Questo duplice impegno trova l’adesione piena e convinta dei Cristiano Sociali. Solo un partito in buona salute, ben strutturato e capace di vivere come risorsa il pluralismo che lo attraversa, può portare nella Casa comune dei riformisti il contributo efficace delle grandi tradizioni storiche da cui proviene e dell’innovazione che ha saputo produrre nell’ultimo decennio.
Uscire dal disagio, per noi, significa partire da qui, dal lavorare nel partito che abbiamo contribuito a costruire, e da qui continuare a dare il nostro apporto alla coalizione per la costruzione del nuovo Ulivo. Qui sta la nostra difficile posizione di frontiera, al confine tra impegno politico e responsabilità sociale, tra partito e società.

10. ALLE RADICI DELLA NOSTRA LAICITA'

Ma la nostra presenza, oggi, nei DS va messa a verifica. Intanto per renderla più efficace e, per questo, più esplicita e visibile. E poi, per far vivere autenticamente l’idea di un partito capace davvero di far incontrare storie, culture e percorsi diversi. Serve una nuova grammatica del pluralismo interno.
E qui c’è qualche problema.
Pluralismo non vuol dire che ciascuno fa quello che gli pare, che gli organismi decidono una linea e poi sui giornali ne appaiono diverse, che i gruppi parlamentari si orientano in un modo e le correnti organizzate di deputati o senatori decidono in un altro. Non si fa molta strada in questo modo. Non è utile la cristallizzazione delle Mozioni di Pesaro né la trasformazione di associazioni di tendenza, fondazioni, centri culturali del partito in veri e propri soggetti politici. Tranne che non si voglia trasformare i DS in un partito federativo. Allora, in quel caso, anche per i Cristiano sociali le cose cambierebbero necessariamente.

Saper cogliere le cose nuove che attraversano la storia è un carattere distintivo del cristianesimo sociale al quale vogliamo continuare a collegarci, coltivando il gusto del capire e del progettare insieme per proporre con coraggio l’innovazione necessaria. E’ un lavoro da iniziare subito, incaricando il nuovo gruppo dirigente di rielaborare i contenuti emersi dall’Assemblea come contributo dei Cristiano Sociali alla Conferenza programmatica dei Ds.
Darsi un nuovo pensiero strategico è anche il modo giusto per sviluppare il dialogo con i cristiani collocati in altre componenti della coalizione e per cercare un collegamento più vitale con le tante realtà sociali e culturali di ispirazione cristiana che dalla sinistra e dall’Ulivo attendono un’interlocuzione più convinta e più credibile.
Se intendiamo rivolgerci anzitutto ai cristiani, non è per una concezione confessionale della politica. Noi crediamo fermamente, al contrario, che i valori legati alla fede cristiana sono chiamati ad animare più culture e più progetti politici: la presenza dei cristiani non può essere irrigidita in un partito e neppure in uno schieramento. E’ anzitutto politica la valutazione che ci fa ritenere opportuno prolungare un’esperienza visibile di cristiani nella sinistra. Avvertiamo che non si è del tutto dissolto un impaccio dei credenti a dislocarsi davvero liberamente in politica e che dunque ha ancora senso rendere riconosciuto e qualificato l’impegno dei cristiani che hanno scelto la sinistra democratica.
Nella collaborazione ravvicinata con la nostra cultura di ispirazione cristiana la sinistra è stata spinta a frequentare meglio la cultura del limite della politica e a fare propri (su temi come la sussidiarietà, il senso strategico del Terzo Settore, le politiche della famiglia) valori e contenuti progettuali indispensabili per arricchire e alimentare un progetto e una pratica autenticamente riformisti.
Per parte nostra, assumiamo l’impegno di rigenerare e rendere più espliciti i fondamenti della nostra laicità cristiana, tornando a riflettere sul nostro modo di interpretare concretamente il rapporto tra fede e politica. L’emergere di temi delicati come la pace e la sicurezza, la globalizzazione e i diritti umani, le biotecnologie e la procreazione assistita, ci ha costretto di nuovo a fare i conti con questo nodo: non solo nella nostra coscienza personale ma anche come gruppo di cristiani impegnati.
E’ chiaro, tra noi, il rifiuto delle concezioni integraliste e clericali dello stare dei cristiani in politica. E’ il discernimento sulla storia che colloca il cristiano, che gli fa valutare la distanza tra gli assetti del tempo in cui vive e i valori che la sua fede alimenta. Un discernimento che conosce il limite dell’uomo e quindi della politica; e che tuttavia sente la responsabilità di impegnarsi ad esprimere quel grado concreto di fedeltà ai valori che gli è dato di testimoniare. Dimenticare i limiti della politica la fa scadere in incubo totalitario o in sterile pretesa moralista. Senza valori ad orientarla, però, la politica si riduce a pragmatismo e a puro gioco di potere.
Rigenerare la moralità della politica è oggi una vera urgenza. Insieme alla questione sociale e ai valori di uguaglianza e giustizia a noi stanno a cuore i valori di promozione della vita e di qualità del suo sviluppo. Ci sono situazioni in cui la responsabilità verso il bene di ciascuno e la responsabilità verso il bene di tutti entrano in conflitto; ed è lacerante scegliere.
In occasione ad esempio della vicenda della fecondazione assistita in Parlamento, noi, che abbiamo votato contro la fecondazione eterologa, non abbiamo cercato di imporre un punto di vista religioso nella elaborazione di una nuova legge, ma un principio totalmente laico: la onnipotenza della scienza medica deve incontrare un limite, un argine di fronte alle esigenze della vita e della responsabilità di chi è chiamato a promuoverla.
Se vogliamo evitare alla sinistra la deriva di una subalternità ad una declinazione radicale e laicista dell’ideologia liberale, occorre una riflessione comune su cosa è oggi la laicità. La laicità liberale non possiede in proprio e per intero la verità sull’uomo e sulla storia. E’ anzi segnata da esasperazione e limiti che si sono sedimentati nel suo storico contrapporsi, con meriti decisivi, alle pretese integraliste prima del cristianesimo reale e poi del socialismo reale. Quel tempo è finito.
Ed è rischioso, per la sinistra, non riconoscere che in quelle esasperazioni e in quei limiti affondano le radici di molte cose nuove ma ingiuste che segnano l’inizio di questo Terzo Millennio.
Noi pensiamo che su questioni decisive come il limite etico che la politica deve porre alle biotecnologie e alla loro mercificazione, l’obiezione di coscienza è necessaria ma non certo sufficiente. Continuiamo a credere che su temi come questi i Ds abbiano bisogno di dialogo ravvicinato e di integrazione qualitativa e non di un’anacronistica giustapposizione tra culture laiche e religiose. Dialogo e contaminazione possibili come dimostra il fatto che in questi anni, su argomenti importanti al centro dell'azione politica del partito e del Parlamento, si sono prodotti risultati significativi. E’ importante continuare su questa strada perché insieme, da laici, c’è da condurre una doppia battaglia: contro l’assoggettamento della vita umana al mercato; contro ogni forma di integralismo culturale e confessionale e per una reale libertà religiosa e un’autentica laicità dello Stato e della politica.

11. RIPENSARE LE FORME DELLA NOSTRA PRESENZA

La presenza così diffusa e forte dei credenti, soprattutto dei cattolici, nel movimento per la pace e contro la guerra in queste settimane, così come nei mesi precedenti nelle battaglie sui diritti del lavoro e sui diritti di libertà, segnala l’avvento di una nuova stagione della presenza e dell’impegno politico ispirato dai valori religiosi. Noi ci siamo. Ma non abbastanza, e soprattutto non come movimento, non come soggetto culturale e politico. Le singole testimonianze sono preziose ma non bastano.
Per questo vanno rinsaldati legami importanti con i soggetti di ispirazione cristiana più consolidati che operano nel sociale e con quelle realtà di gruppi, comunità e movimenti diffusi, dove il rapporto tra fede e impegno sociale fonda esperienze capaci di tenere insieme radicalità dei valori e realismo degli obiettivi.
I cristiano-sociali di oggi non bastano a se stessi. Dobbiamo aprirci, rilanciare l’idea della costruzione di una rete tra i cristiani della sinistra, una rete di collegamento tra esperienze, personalità, gruppi locali, amministratori, dentro e fuori i confini del partito. Per questo bisognerà investire risorse sulla comunicazione, sull’attività culturale, sulla formazione.
Questo ricalibrare la nostra missione, dislocandola in termini insieme più connotati e più aperti sia nei Ds sia nell’area di riferimento, comporta che l’Assemblea compia finalmente una scelta coerente e definitiva sulla struttura della nostra presenza, che non può più esaurirsi entro le sole forme del movimento politico. Mentre, infatti, occorre avviare da subito un vero impegno costituente per ridefinire su basi regionali il carattere federativo dei Cs, con la costituzione di associazioni regionali, è anche necessario investire nuove energie umane, finanziarie ed editoriali per promuovere strumenti più capaci di accompagnare la presenza dei cristiani nella sinistra dentro e fuori i partiti, e nell’Ulivo e di sostenere l’esperienza dei tanti soggetti dell’Italia solidale. La nostra organizzazione all’interno del partito potrà essere assimilata alle forme dell’associazione di tendenza, poiché essa ci configura come un’istanza del pluralismo culturale dei Ds che però può collegare anche non iscritti al partito.
Questo essere nel partito ma poter condurre interlocuzioni e comune ricerca con persone, gruppi, associazioni senza selezionarle sulla base della loro disponibilità ad entrare nei Ds è davvero più rispondente al profilo nuovo che intendiamo assumere. Ci spingerà, d’altra parte, ad affiancare all’associazione nuovi strumenti e nuove esperienze in un vero e proprio percorso costituente da avviare nei prossimi mesi.
Io penso, in questo senso, che il nostro modello associativo debba diventare quello della ospitalità. L’ospitalità non è un luogo in cui si ammassano soggetti, è uno spazio di comunicazione. L’ospitalità promuove, non sigilla le identità in una appartenenza.
L’ospitalità educa alla comunicazione non alla spartizione di spoglie, alla politica non alla predicazione. Se questo è vero, il fondamento dell’ospitalità è la reciprocità, è l’azione volontaria, è la valorizzazione della responsabilità. A partire dalla nostra, certamente, ma poi anche quella che viene da più mondi, da più situazioni, da un bisogno diffuso di partecipazione, di compagnia, di senso.
Una nuova generazione di credenti,ragazze e ragazzi, che si affaccia per la prima volta all’impegno politico, chiede luoghi, spazi, opportunità anche educative.
Le poche risorse che abbiamo dobbiamo investirle per intercettare e raccogliere almeno una parte di quelle domande, anche per rendere i Ds un partito più accogliente e più agibile dai nostri mondi di riferimento.
Il nostro compito allora, qui a Chianciano, e poi a Roma e nei territori in cui siamo presenti, è quello di darci la cultura, gli strumenti e un nuovo gruppo dirigente per reggere e sviluppare questo compito. Possiamo farlo perché abbiamo delle solide radici e, insieme, una gran voglia di futuro. Mantenere un patrimonio non basta perché non abbiamo davanti a noi soltanto le certezze del passato ma le domande e l’avventura del futuro, e possiamo essere rassicurati solo da questo saper guardare lontano, da questo affidarci alla lontananza, da questo sfidare il cammino. La mia disponibilità c’è, ma gli obiettivi che ci prefiggiamo oggi richiedono anche l’apporto di nuove forze e di nuovi contributi di creatività, di professionalità, di intelligenza. Spetta a noi individuare queste potenzialità, sostenerle e promuoverle attraverso la valorizzazione delle capacità. E questa, oggi la nostra responsabilità più grande.
C’è bisogno di una squadra che non voglia perdere questa occasione. C’è bisogno di dirigenti convinti e determinati, di persone che, al centro e in periferia, mettano in campo un impegno alimentato dalla speranza e dalla fiducia. Bisogna crederci. La depressione bisogna lasciarla fuori dalla porta. Ci aspettano tempi difficili e li potremo affrontare solo con la determinazione di un progetto, su una unità profonda nella rotta da seguire.